Opificio Lamantini Anonimi
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02 mar 2025

Questa AI non pensa. Sta solo predicendo

Una riflessione critica sull’equivoco più diffuso dell’era generativa: confondere l’intelligenza con la previsione.

"L’intelligenza artificiale non è intelligente. È solo straordinariamente brava a indovinare cosa viene dopo."

L’illusione della mente digitale

C’è una frase che sentiamo spesso, pronunciata con un misto di meraviglia e inquietudine: “Ormai l’intelligenza artificiale pensa meglio di noi.”

Ed è qui che si accende la spia rossa.

Non per timore, ma per chiarezza: l’IA non pensa. E no, non è un problema di semantica. È un fraintendimento sostanziale, una sovrascrittura narrativa che sta trasformando uno strumento matematico in un mito contemporaneo.

Un mito comodo, certo. Ma profondamente fuorviante.

Predizione non è coscienza

Le IA generative, come i modelli linguistici, non “comprendono” il contenuto che generano. Non riflettono, non elaborano significati come farebbe un essere umano. Quello che fanno, in modo brillante, è prevedere. Calcolare la parola più probabile che segue, dato un certo contesto. Basta questo a farne un’intelligenza?

La risposta, con la voce pacata ma ferma di un lamantino, è: no.

Questi sistemi funzionano come oracoli statistici: enormi calcolatori che hanno assorbito trilioni di frasi e che, nel momento in cui scrivono, non fanno altro che pescare la soluzione con la massima probabilità.

Non c’è consapevolezza, non c’è intenzione. Solo predizione.

La poetica dell’automatismo

Ma allora perché ci sembrano così… umani?

Perché siamo fatti per riconoscere schemi, emozioni, intenzioni. E perché l’IA, addestrata su testi umani, ci restituisce il nostro stesso riflesso. Come uno specchio matematico che ci conosce fin troppo bene.

La sua “intelligenza” non sta nel pensare, ma nell’imitare.

Un po’ come un pappagallo addestrato a recitare Shakespeare: può sembrare geniale, ma non ha idea di cosa sta dicendo.

Un rischio semantico (e culturale)

La vera sfida, oggi, non è tecnica. È narrativa.

Ogni volta che parliamo dell’IA come se fosse un cervello artificiale, stiamo creando aspettative sbagliate. Stiamo lasciando che l’idea di una “mente digitale” si insinui nel dibattito pubblico, distorcendo il valore dello strumento e il ruolo dell’umano.

La tecnologia non pensa.

Siamo noi a dover pensare, e a pensare bene. Anche — e soprattutto — quando usiamo strumenti tanto potenti quanto impersonali.

Creatività aumentata o creatività annacquata?

Un altro pericolo è quello di attribuire all’IA capacità creative.

Certo, può generare contenuti sorprendenti. Ma non ha mai avuto un’idea. Non può stupirsi. Non prova entusiasmo né frustrazione. Non ha sogni, né fallimenti da cui rinascere.

La creatività vera nasce dal caos, dall’errore, dalla soggettività. L’IA, invece, è un motore di probabilità.

Può essere utile, anche ispirante. Ma il suo ruolo è quello di co-pilota, non di autore.

Non temere l’IA. Temi chi smette di farsi domande

Il futuro dell’intelligenza artificiale è ancora tutto da scrivere. Ma una cosa è certa: non possiamo permetterci di delegare il pensiero critico. Né alla macchina, né a chi la costruisce.

Usiamo l’IA. Addestriamola. Affidiamoci a lei per i compiti ripetitivi, per organizzare, catalogare, accelerare. Ma quando si tratta di immaginare, decidere, creare visioni… lì, serve ancora un cervello umano. Magari un po’ goffo, ma decisamente più brillante.

Come il nostro amico lamantino, che si muove lento ma sa dove sta andando.

Che sia un’idea, una curiosità, una sfida da affrontare, per noi non è mai “solo un contatto”.

È l’inizio di una conversazione, magari davanti a un caffè, reale o virtuale che sia.

Compila il form qui sotto e raccontaci cosa ti passa per la testa.

Promesso: niente automatismi, solo lamantini veri (con tastiera e cervello ben accesi).